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Mai come
d'inverno, se l'annata è stata generosa ed ha ripagato il
lavoro nei campi, l'agricoltore ringrazia il Cielo per il pane quotidiano concesso e si
compiace della propria fortuna. Nell'ora dilatata dell'ozio parallelo al sonno delle
colline e delle valli brumose e alla chiusura del bosco sotto il peso della neve, la casa
diviene il forziere degli affetti e della dovizia.
Il grano colma fino all'orlo le bocche larghe dei sacchi, il vino rischiara nelle botti,
l'olio riempie gli orni e dalle travi della dispensa pende la ricchezza dell'orto e del
fruttero. Accanto all'ambra appassita dell'uva scoppia come una risata improvvisa il rosso
dei pomodori e dei peperoni, il giallo delle zucche, l'arancio del granoturco, il verde
dei meloni. Sopra gli assi, i fichi, essicati al sole d'agosto e rinfrescati all'aria di
settembre, tingono le dita di dolcezze, mentre l'apparente modestia delle mele riempie
l'aria di profumi sottili. In un angolo più nascosto, sottratte alla golosità dei più
piccoli, le noci, le avellane, le mandorle attendono di impreziosire le sere di festa,
insierme alla lunga teoria degli orcioli pieni di marmellate e di miele. Né manca l'acre
presenza delle forme di cacio, ben disposte sull'assito di canna dondolante dal gancio
della volta. Ma su tutto trionfa glorioso il maiale. Vera ricchezza dell'inverno contadino
e apoteosi di una tavola, abitualmente parca, il maiale dopo il necessario sacrificio
cruento, rivela e moltiplica le sue virtù.
"Del porco non si getta niente" ammonisce un detto popolare; a cominciare dal
sangue che, quasi come preludio di tutti gli altri doni successivi, per primo sgorga a
fiotti dal colpo appena inferto e spesso arrossa la neve. Sangue fritto con un ramo di
rosmarino e un accenno d'aglio, sangue dolce maritato con mandorle e noci, mantecato con
il mosto cotto; vere delizie per gli intenditori, ma pur sempre una superflua
eccentricità rispetto alle qualità più concrete dei prosciutti di coscia, dei
capilombi, delle soppressate, delle salsicce di spalla, della ventresca, del lardo, del
guanciale, degli zampetti, delle orecchie, delle cotenne, dello strutto e persino del muso
e degli sfrigoli, estremo eppure ineffabile resto della consunzione finale. Unico,
insostituibile, inimitabile, più del paziente bue, della mite pecora, del razzolante
pollastro, del prolifico coniglio, il maiale partecipa, per l'immaginario collettivo,
persino alla santità. Non c'è chiesa di campagna che non abbia il suo Sant'Antonio abate
con l'immancabile porco tra i piedi. Una compagnia che è molto più densa di significati
di quella di San Rocco e il cane.
In nome del monaco eremita l'uccisione del maiale si carica di segni rituali e la
richiesta di salsicce e di cotechini alla fine del canto di questua perpetua, con la
ridistribuzione dei beni alimentari, una sorta di originario annullamento delle classi
sociali, in nome di una Sacralità sospesa tra cielo e terra.
O salsicce o salcicciotto
vino crudo e vino cotto
Sia pur l'osso del prosciutto
Sant'Antonio accetta tutto. |