Signora delle stagioni, tu che moltiplichi i frutti e le
spighe
provvedi che questo grano sia ben mietuto e che renda molti chicchi.
Lavoratori i mannelli stringete,
il taglio del covone esponete al soffio di Zefiro o a tramontana
affinché si impinguino i chicchi.
Teocrito, Idilli, X (I
mietitori - Il canto del lavoro)
Che il giorno fosse colmo
di misteri intrisi nell'ombra impenetrabile di una storia nuda e terribile, lo avevo percepito da prima che
sorgesse il sole, quando il silenzio della casa era stato attraversato da un risveglio
insolito, fatto di gesti brevi e attenti.
Sul lastrico della piazza si era inteso, nel buio della notte, dapprima uno scalpiccio
sommesso di piedi scalzi, un'attesa fatta più di respiri che di parole, quindi, dopo il
cigolio circospetto della porta sui cardini e il tonfo del battente che si richiudeva, il
passo sicuro di mio nonno a capo della compagnia.
Nel sonno dell'alba oscillavo tra le voci che giungevano dalla cucina sottostante,
trafficata dall'andirivieni delle donne intorno al focolare e ai fornelli, e il risveglio
mi rivelava tutta l'eccezionalità della circostanza era il giorno della mietitura. Le
cugine erano già ritornate dalla campagna con i canestri vuoti della stozza e la nonna
già si apprestava a recarsi sul campo con lu rimbinze. In mezzo al giovanile e ridente
corteggio che le era dappresso esprimeva il ruolo grave e solenne di padrona.
Accomodandosi sulle tempie il fazzoletto che nascondeva appena il rutilante barbaglìo
degli orecchini, il cercine sul capo e la cesta pronta ad essere issata sulla scura figura
eretta contro la luce del giorno, negava con poche e determinate parole, alla mia
petulante insistenza, il permesso di accompagnarla "questa non è ora di bambine. Sul
campo c'è la Madre del Grano".
Mettendo insieme i tasselli che ero riuscita a cogliere tra i discorsi, immaginavo la
schiera dei mietitori tra le messi assolate, le dita coperte di canne, le braccia gonfie
di vene e il luccicare delle falci affilate. Immaginavo anche la Madre del Grano, immensa
e in trono sotto l'olivo più frondoso che, come un idolo barbaro e spietato ogni anno
pretendeva un tributo di sangue. Seduta sull'uscio, di fronte allo slargo sotto cui si
aprivano le caverne del Monte frumentario volgevo lo sguardo verso la campagna onusta di
giallo e di sete, sotto un cielo turchese e vibrante di cicale, mentre lontano si
rincorrevano il canto dei galli e l'abbaiare dei cani. Percepivo l'archetipo e il doppio
di un dramma una cifra oscura di sentimenti legati con un filo rosso. L'immaginazione mi
rivelava la scena di una primordiale rappresentazione in cui erano protagonisti la madre
con le ceste del cibo, la fanciulla con il bel piede roseo tra i campi fioriti e, in mezzo
a loro, forte e vulnerabile, il mietitore.
Il cuore, sospeso nella solitudine della conoscenza, si fermava sulle soglie del Sacro,
mentre, sull'aria che girava a mezzo il giorno, mi giungeva il canto che salutava la
padrona
Sa n'à menute l'ora de lu mete
scappatene rane mj' ca mo' te tajie.
O San Giuànne che stai sopra ssu colle
vutte nu poche d'arji' a capabballe.
La code de la holpe te' lu pele
Gnora Patrona me' purtem'a bbeve
e damme l'acque, ne'mme da' lu vine,
damme na rama de truzzemarine.
Al ritorno il silenzio della nonna contrastava con il riso, inframmezzato di parole, delle
ragazze. Si sedeva al fresco dell'acquaio, si scioglieva il fazzoletto dalla testa e si
asciugava il viso con aria assorta.
Attingeva con il maniere un sorso d'acqua alla conca, si bagnava le labbra e, con un gesto
lento e malinconico, gettava il resto in un angolo del focolare.
Nella cesta sopra il tovagliolo bianco che aveva coperto, all'andata, i cibi, giaceva un
mazzo rigoglioso di spighe. Erano le prime che il caporale aveva reciso in nome di Dio.
Quindi si alzava e, mentre sul tavolo della cucina le donne approntavano, per la cena,
un'ecatombe di polli e montagne di scarola fresca, a capo scoperto, in un'intimità
familiare concessa di rado, si avviava a sostituire con le nuove, le spighe poste l'anno
precedente a capo il letto. Sulla parete bianca rosseggiavano, insieme al cero della
Candelora, alla palma di Pasqua, alla crocetta dell'Ascenza e alla corona della buona
Morte, in mezzo al suo santuario domestico.
Molti anni dopo entro la muffita penombra di una biblioteca, sulle pagine del libro aperto
di fronte alla finestra, avrei trovato i nomi e gli spazi delle mie infantili teogonie
Eleusi, Demetra, Persefone, i dona praemetia, l'offerente di Rapino, Lityerse e
l'uccisione dello straniero con la falce messoria, Anna Perenna e Sant'Anna, Maria Bambina
e l'Addolorata.
Ma la Madre del Grano, anche quando provai, seguendo l'Inno omerico, ad immaginarla
"con il ceruleo manto gettato dagli omeri entrambi", non aveva altro sguardo che
quello maestoso della nonna che si avviava, con le ceste sul capo a presenziare da Padrona
alla mietitura di mezzo giorno.