La mietitura è la sacra rappresentazione di un rito in cui i protagonisti sono
il sacerdote e la vittima consacrata e l'azione principale è la comunione con lo Spirito
divino
A quasi 40 anni dalla
pubblicazione, "Vita tradizionale dei contadini abruzzesi" (Olschki, Firenze 1962) di Elvira Nobilio resta,
nell'ambito antropologico regionale, uno degli studi più validi e accurati. Allieva di
Paolo Toschi la Nobilio, anticipando quello che sarebbe divenuto negli anni '70
l'orientamento principale della scuola italiana, offre storie di vita in cui contadini e
paesani raccontano forme e situazioni della cultura popolare. Esemplari sono le pagine
dedicate alla mietitura, anche perché documentano, in tempi relativamente recenti,
strutture e comportamenti interpretabili come sopravvivenze di riti primordiali.
"Nei mesi di giugno e luglio i braccianti agricoli e i contadini che non possono
affrontare senza operai il lavoro della mietitura, vanno verso le due del mattino a fa'
piazza; si riuniscono, cioè, nelle piazze del paese per stabilire il contratto di lavoro
che varia da giornata a giornata. (...) Nel caso in cui abbiano fatto molta strada, gli
operai ingaggiati, all'arrivo, ricevono lu muccichelle, consistente in pane unto, o anche
in pane e salsicce, o in pane e formaggio. Ha inizio poi la mietitura che è così
regolata vengono formate squadre di trenta mietitori al massimo. Uno di essi, il più
capace ed il più svelto, detto il caporale, si pone a destra all'inizio della fila;
dall'altra parte, a sinistra, si pone per ultimo lo staccone. Staccone significa giovane
asino. Lu caporale guida la squadra; a lui spetta iniziare la nuova taglia da mietere e al
suo ritmo di lavoro devono adeguarsi tutti gli altri. (...) Verso le dieci viene portata
ai mietitori la colazione baccalà, o anche uova e peperoni, o salsicce. A mezzogiorno, la
patrone porta lu rimbizze pane con formaggio o prosciutto. Verso le quattro e mezza di
nuovo lu rimbizze; quando alfine si è lasciato di mietere, cioè verso le sette e mezza,
vicino la casa e possibilmente su un tavolo, si mangia dell'insalata con prosciutto e
pane. Il vino viene bevuto ad ogni pasto della giornata e, tranne che in quello che si
svolge a lavoro ultimato, colui che deve avere per primo il fiasco è il caporale. È una
regola a cui si tiene moltissimo e, ancora vent'anni fa, se vi si contravveniva,
accadevano scene di violenza e addirittura ferimenti con le falci e uccisioni. L'acqua
viene portata per primo allo staccone. - Lu povere staccone è sembre burlate - e ho
potuto constatare come gli vengano diretti continuamente, intonati dal caporale, frasi di
dileggio con allusioni lascive. (...) Quando la mietitura è al termine si ode spesso
gridare Daji che mmo l'acchjiappete la quàjie!
A lavoro ultimato, un fascio di spighe, prese dall'ultimo covone o scelte tra le più
belle nel corso della mietitura, viene appeso davanti la porta o messo in casa entro un
vaso".
Il brano riportato induce ad almeno tre punti di considerazione:
- il caporale e lo staccone come personaggi del dramma sacro;
- la quaglia come incarnazione zoomorfa dello spirito del grano;
- il mazzetto di spighe come pegno di resurrezione.
In tutta l'area euromediterranea, per restare nell'ambito della cultura occidentale, la
mietitura è intesa come la sacra rappresentazione della morte rituale, mediante ferimento
e uccisione, della vegetazione cereale. Tale era la celebrazione dei Misteri eleusini che,
partendo dalla spiga recisa, rinnovava, con una serie di pratiche simboliche, la rinascita
ciclica.
Come tutte le liturgie anche quella dell'uccisione del grano aveva ed ha il suo sacerdote
e la sua vittima sacrificale. Al caporale spetta il ruolo di regolare i tempi e le forme
della cerimonia, iniziando la taglia intesa anche come prima effusione dello spirito
vitale, allo staccone quella di colpevole che, falciando l'ultima spiga, si assume la
responsabilità effettiva della morte del grano. Per questa colpa, alla quale del resto
non può sottrarsi in quanto derivante da un'azione funzionale alla sua stessa identità,
lo staccone viene posto al di fuori del gruppo, in una diversità emarginata, per la quale
subisce la condanna al dileggio, interpretato come sacrificio simbolico e sostitutivo di
quello reale. Al riguardo James George Frazer, (Il Ramo d'oro 1922) dopo una lunga
esposizione di esempi conclude che "molte storie suggeriscono l'idea che il
rappresentante umano dello spirito del grano fosse scelto nel corso di una gara di
falciatura sul campo delle messi e che la vittima così designata in nessun caso si
potesse sottrarre a questo fatale onore".
Per quanto riguarda il grido dei mietitori vestini "Daji che mmo l'acchjiappete la
quàjie" occorre precisare come esso rimandi ad una concezione ampiamente attestata
nell'area culturale europea che lo spirito del grano sia incarnato in un animale (molto
spesso un volatile) e che sotto questa forma sia presente sul campo, dove possa essere
preso ed ucciso. Si crede infatti che durante la mietitura l'animale fugga davanti ai
falciatori, rifugiandosi nell'ultimo fascio di spighe.
L'uccisione dell'animale divino da parte del mietitore che chiude la fila, lo smembramento
e il consumo comunitario della sua carne mettono in evidenza il carattere sacramentale del
pranzo della mietitura. È appena il caso di ricordare come i maccheroni con il sugo di
papera siano il cibo tipico dei mietitori e dei trescatori.
In quanto al mazzetto conservato tra le immagini sacre del focolare, fino a quando i suoi
chicchi non saranno mescolati con quelli della semina, appare evidente che, come le spighe
del santuario di Eleusi o il praemetium latino sul simulacro di Cerere, esso rappresenti
la figlia vergine del grano, la divina Kore, sposa di Dite, signora del sottosuolo e delle
ricchezze, e pegno di rinascita vegetale e del ciclico ritorno sulla terra.