Canto e cibo sono elementi ricorrenti nelle grandi opere agricole estive. Tutti e
due, per tradizione, assumono il carattere eccezionale ed eccessivo del dramma
I mietitori il sole gli impazza
E come cani abbaiano a chi passa.
I mietitori fanno l'incanata
Nel vino rosso mai non metton acqua.
E per ogni mannella una sorsata,
E il piede della bica è la caraffa.
Gabriele d'Annunzio, La
Figlia di Iorio, atto I - scena 2
Fin dall'antichità i
mietitori solevano gridare plausi, i cui versi, tragici e lascivi, piangevano la morte di
un amante, ne ricordavano le imprese erotiche e ne auspicavano il ritorno dall'oltretomba. I greci chiamavano
questi lamenti Maneros, corruzione linguistica della formula egiziana mââ ne hra (vieni
a casa) con cui, nel Libro dei Morti, Iside, invocava, il ritorno di Osiride; oppure,
riferendosi alle tradizioni dei Fenici, ailinos o, infine, per quanto riguarda i Frigi,
Lityerse, in questo caso identificando il canto con il giovane principe ucciso sul campo
da una squadra di mietitori.
La pratica, di cui Ernesto de Martino mette in evidenza struttura e funzione in
"Morte e pianto rituale nel mondo antico" (1958), è documentata in tutta
l'Europa.
In Abruzzo prende il nome di carella o incanata. La seconda definizione,per quanto
suggestiva e fortunata, è poco chiara e verificata. La riporta Antonio De Nino nel
secondo volume dei suoi "Usi e costumi" (1882) senza peraltro indicare il luogo
di raccolta del documento.
Ad essa e all'uso di aggredire verbalmente i passanti nelle vicinanze del campo di grano,
fa riferimento Gabriele d'Annunzio, nella celebre scena de "La Figlia di Iorio",
quando Mila di Codra si rifugia sulla pietra del focolare di Candia per sfuggire alla
bramosia dei mietitori.
La carella, come a detta di Ernesto Giammarco è più corretto chiamare questo canto, non
è un genere a sé stante, in quanto rientra, per funzione, in quello di lavoro e per
forma nel distico amebeo per lo più assonante, ma rivendica una singolarità di contenuti
e di espressioni, poiché il significato licenzioso della frase si distende su un apparato
melodico che, come bene evidenzia Gennaro Finamore, "di tono solenne si ode dalla
bocca dei mietitori e delle spigolatrici durante le operazioni della segatura, tanto che
si avverte il contrasto tra l'intonazione grave della melodia e le parole gaje scherzose
ed anche scurrili" (1920).
Benché una non vasta messe di lamenti e i plausi funebri raccolti in Abruzzo, - anche se
per tutti basta il lirico esempio Tra Mascioni e Campotosto, riportato da Benedetto Croce
in "Poesia e non poesia" -, non consenta, soprattutto per la parte musicale,
comparazioni seriali, tuttavia la documentazione disponibile è sufficiente ad evidenziare
il segno che identifica e sovrappone questi due livelli estetici e morali, apparentemente
distinti e contrapposti. Nella carella riportata da Elvira Nobilio, diretta allo staccone,
alla padrona e allo straniero che passa vicino al campo, la dimensione drammatica, quella
erotica e quella sacrale sono unite entro un patos continuo e percepibile.
Caporale O staccone! o signore! bass'e ttonno e ppulit'e nnett'e ssènza
pennàcchjie! pulite bbene queste rane
a cciò che lu patrone nn zi langne! facètiji fa la zitèlla come la vita di vòstra
sorèlla!
Nu salut'a mme e nn'atr'a tte e nn'atre a llu patrone e nn'atre a lla
patrone e ddiceme na parola
a tutte la nòbbile combagnia
Evviva Marie e cchji la crijò!
Tutti Evviva Marie!
Caporale Chji nn'à rispòste s'à rrubbate lu pane!
Caporale E je rvènghe da monde e vvalle che nna visaccia sopr'a lle
spalle! Piena di pòlvere e ppalle!
E nghji nu puston'arruzzinite e je e tte perdeme la vite!
Tutti in coro Ah sasò! vi cchji jù! vi! A sasò! ih!
Caporale E je rvènghe da Castèl del Monde, prima era prìngipe e mmo so'
conde! e mmo so' calate in màssima fortuna, dendr'a lla calle e ssu a lli belluna!
Tutti Ah sasò ecc...
Caporale E ttu nghji ssa vèsta rosscia e je nghji sti caze turchjine!
tiret'a bballe ca ci facemi na fasscine!
Tutti Ah sasò ecc...
Caporale E je rvènghe da Monde Bbèlle nghji nu pare di vaccarèllee nghji lu pindone di
melichjitongne ti dinghe na vòtte na ssa cionne!
Tutti Ah sasò ecc...
Come la carella anche il cibo, particolarmente abbondante e sottoposto ad una serie di
prescrizioni e tabù, assolve a una funzione rituale e simbolica. Sopravvivenza di una
religiosità cerealicola, propria delle culture agrarie, il cibo consumato sul campo dai
mietitori, più che a norme igieniche e a necessità concretamente nutrizionali e di
reintegro delle energie spese - necessità che pure la pesantezza del lavoro impone-
risponde al principio di risolvere e trasferire, in una sfera attinente al Sacro, il
rischio derivante dalla morte, per uccisione, del Grano.
In questo senso l'eccezionalità alimentare della mietitura si pone specularmente di
fronte a quella del Carnevale. In ambedue le occasioni la cultura contadina coniuga l'idea
di morte e di Eros, individuando nella seconda due categorie simboliche da un lato eros
inteso come acme supremo del passaggio tra la vita e la morte, dall'altro eros vissuto
come espressione eccezionale del basso.
In questa prospettiva il consumo del cibo assume la funzione rituale di esorcizzare il
timore del delitto e vincere il rischio della pena.
Signora più che mai dell'abbondanza, ella stessa personificazione del Grano maturo, la
padrona amministra il cibo della mietitura e della tresca preparando le varie scansioni
del regime che, a seconda dei casi e dei luoghi, è lu sdijune, le chumberzijune, lu
rimbinze, la stozza, la rimbrenna, i maccheroni con la papera muta, i pollastri, le
lattughe, le insalate di pomodori e turtarelli, ma soprattutto quell'inimitabile vino
stumbrato, che è poi una densa bevanda, ottenuta mescolando una parte di vino cotto con
cinque di crudo, e da allungare giudiziosamente con l'acqua.