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LA TERRA DEL LATTE E
DEL MIELE
Testi di Maria Concetta Nicolai
Foto di Luciano D'Angelo
La Valle Tritana fiorita di mandorli.
Lungo essa correva una parte del Tratturo Magno
che collegava L'Aquila a Foggia, con un percorso di 243 chilometri. |
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In fondo alla piana, Santa
Maria di Cintorelli galleggia su un respiro trasparente. Fisica ed evanescente, come il
ricordo dei sogni giunti all'alba, la chiesa si solleva tra l'erba e il cielo d'aprile,
congiunti dalla linea scintillante delle montagne innevate. D'intorno i paesi, da Navelli
a Civitaretenga da Caporciano a San Pio delle Camere, da San Demetrio dei Vestini a Poggio
Picenze, e via via più su, fino alle vertigini della Rocca di Calascio o ai misteri di
Peltuinum, rimandano il pensiero alla metafora di un gregge sparso per l'aria di
primavera. Un'aria scandita dall'erba nuova, dalle foglie leggere e tremanti sui rami, dai
voli solitari, dai richiami improvvisi e brevi degli animali appena risvegliati, dalla
corsa dell'acqua entro le sponde odorose, dalle porte delle chiese campestri spalancate
sui prati, dai campanili che suonano a festa, accompagnando l'alto dispiegarsi degli
stendardi che tornano ad attraversare le valli e a radunare processioni in nome dei Santi.
Da sempre, in Abruzzo, la primavera scende dalla montagna con il passo sicuro di chi
pratica i lunghi cammini e con il gesto sereno di chi sa trasformare la memoria in
speranza futura. È così dai tempi mitici del Ver sacrum, quando compagnie di giovani
scendevano a valle, seguendo il bue bianco, sacro a Marte, significativo totem di teogonie
e di battaglie, alla ricerca di nuovi pascoli e nuove patrie. Da allora è sempre stato
così; e per una sorta di inclinazione naturale la prima stagione dell'anno sembra
esprimere, con sublime intensità, le proprie categorie entro la maestà dell'orizzonte e
la profondità dei valichi che si aprono tra cima e cima. L'aria che anche in pianura, a
dire il vero, già alla fine di marzo, si carica di odori vibranti e germina pulviscoli
vivi, in montagna tuttavia, rivela una qualità sommamente indefinibile. Liberata
all'improvviso dall'incombente peso delle nubi, dal sibilo spietato della tormenta,
dall'angosciante turbinio della neve, ormai cristallizzata in una algida e preziosissima
traccia tesa lungo i margini dei dirupi, l'aria, specie nell'ora luminosa del primo
mattino, si libra e si spande per la vastità del cielo con la pura trasparenza iridata
del cristallo, entro cui si rifrangono e si immillano, in un rimando che evoca
l'immensità stessa della creazione, tutti gli archetipi.
Il silenzio, che empie gli spazi, è l'ascolto incantato del respiro della vita, la pausa
dovuta dopo la prima parola detta, il pensiero che si guarda dentro l'anima. Il confine
tra la dimensione del Sacro e il mondo degli uomini è una linea sottile ed incerta.
Ovunque è tempo e luogo di dendroforie, di rivelazioni escatologiche e la giovinezza è
la condizione immutabile dei figli di un Dio. E tali erano quelli che a primavera
scendevano, con il capo coronato di verde, dietro il toro sannita, quelli che salivano a
deporre le offerte alla stipe votiva di Ercole Curino, quei sodali di Ercole che
banchettavano nel Vico Stramenticio dei Piceni, o quei Marrucini che, in lunga fila,
secondo la legge sacrata, si avviavano alla grotta di Rapino per consegnare alla Madre del
cielo e della terra il più bel fiore della Gente, quelle bambine avvolte in candidi lini
e onuste di ori che ancora oggi, con sostanziale continuità, dopo venticinque secoli, si
prostrano dinnanzi alla Madonna del Carpino. Gente di montagna, forgiata, nelle lunghe
ombre invernali, a immergere la finitezza nella fantasia, ad attendere l'incontro con il
soprannaturale, a modulare lo spirito e la parola per colloquiare con Dio, uomini
guerrieri e nomadi, legati più al senso che al possesso delle cose, uomini forti e
gentili, come forse con abusata espressione si dice, che recano in mano, al modo dei
mitici abitatori dell'Età dell'oro, latte e miele. |