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SE ASCOLTAR
VI PIACE
La transumanza raccontata da un
pastore-poeta.
I pastori per otto mesi nelle Puglie, lontano
dalle famiglie, sparsi in quella sterminata pianura che ancora oggi si chiama il
Tavoliere, tante volte nelle campagne deserte e malariche, per alloggio una stalla o la
capanna, senza nessuna necessaria comodità, dove si viveva quasi la vita degli uomini
primitivi; quattro mesi in montagna, eppure non erano tutti analfabeti. Nelle sere
d'inverno riuniti intorno ad un gran fuoco, si leggeva e tutti ascoltavano attentamente. I
libri preferiti erano L'Orlando innamorato, L'Orlando furioso, La Gerusalemme liberata, I
Reali di Francia, Il Guerin meschino, Le mille e una notte, Le storie dei Paladini di
Francia e Paris e Vienna. C'era qualcuno che poteva fare concorrenza a Silvio Pellico e
Tommaso Grossi, nel sapere a memoria parecchi canti della Gerusalemme liberata. Però non
tutti i padroni permettevano di leggere; c'erano di quelli che per l'avarizia superavano
l'Avaro di Salerno e la sera, come questi, se ne stavano al buio. Quando gli affari
andavano bene il padrone stava contento e ai pastori comprava il vino. La sera, rientrati
nel rustico abituro, vi regnavano la pace e l'allegria.
Qualcuno che aveva un poco di intelligenza raccontava fiabe e storielle allegre. Vivevano
nella più pura semplicità. Credevano per vere tutte le fiabe di orchi, di maghi, di
fate, di streghe e questi racconti creavano sempre la delizia della pura e semplice
compagnia. Raccontavano anche di tesori nascosti nelle caverne sui nostri monti, ma
custoditi dai demoni, e non vi era stato mai un coraggioso che riusciva a prenderli.
Quando tutto andava male per qualche nevicata o per qualche altro accidente, era come se
si stava in lutto. La sera se ne stavano taciturni e muti e se qualcuno faceva una parola
non c'era chi gli rispondeva; era come se si assistesse ad una veglia funebre. Qualcuno,
annoiato da tanto silenzio, se ne andava a dormire. Se il pane era di cattiva qualità
nessuno poteva reclamare. Pazientemente si doveva tollerare tutto. Negli anni del
brigantaggio si può dire che vivevano sotto il terrore. Non potevano stare mai
tranquilli; qualche volta di notte assaliti e derubati, la casa incendiata e a qualcuno
veniva tolta barbaramente la vita. Quando non c'erano le ferrovie la maggior disgrazia per
i pastori era quando cadevano ammalati; e nelle zone malariche accadeva spesso. Il malato
che voleva e poteva tornare al suo paese vi andava a cavallo sopra il basto, accompagnato
da un conducente che prendeva la via del ritorno. La paga giornaliera era di trenta o
quaranta centesimi e un chilo di pane, al mese un litro d'olio e un chilo di sale.
Erano uomini grandi e robusti; chi sa che si sarebbero mangiato e dei trenta chili di pane
ne risparmiavano cinque o sei e anche l'olio non lo consumavano tutto. Stavano sempre
affamati come i lupi; mangiavano ogni qualità di verdura selvaggia. La carne delle pecore
morte si salava e si conservava secca. Per conto del padrone erano attivi, infaticabili.
Lavoravano non solo il giorno, ma anche parte della notte e per se stessi trovavano il
tempo per radersi, rattoppare i panni, lavare la biancheria. Al tempo della partenza, nei
tempi passati, c'era l'usanza che il giovanotto che aveva la fidanzata riuniva tre o
quattro cantori e suonatori e con questi andava sotto la finestra della sua bella e con
poche strofe rozzamente ingarbugliate esprimeva il dolore per la partenza, il pensiero che
si aveva nella lontananza e l'ansia del ritorno. La fanciulla si affacciava e rispondeva
con un mesto canto. Quelle strofe volentieri le avrei scritte, ma non mi riuscì di
coglierle intere e per questo vi ho messo del mio.
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