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Sulmona

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Sulmona"Sulmona è la mia patria" cantò Ovidio consegnando la memoria della città alla storia Ci avviamo a chiudere il secolo e con esso liquideremo anche il Millennio, il secondo dell'era cristiana, ma forse il terzo per la vetusta Sulmona che, come narrarono i fantasiosi scrittori del passato, con forte anticipo sulla nascita di Roma era stata fondata da Solimo, fortunosamente scampato assieme ad Enea e ai suoi compagni alla distruzione di Troia. Quei protosulmonesi, che in realtà non erano oriundi della lontana Frigia ma solo italici peligni, rifuggendo dalle paludi acquitrinose del fondovalle avevano fissato stabile dimora in stazzi e capanne sui rilievi del Monte Mitra, difendendoli con possenti muraglie innalzate con grossi blocchi calcarei sbozzati dalle callose mani di tagliapietre improvvisati. Ed erano cresciuti in numero e in possanza pascolando le greggi e coltivando la terra, avevano barattato lane e pelli, avevano imparato a plasmare l'argilla, a forgiare il metallo: così, giorno dopo giorno, per secoli. Poi erano scesi dai monti per costruire nuovi abitacoli sul piccolo dosso incuneato tra i fiumi, circuendo anche quei pochi iugeri di terra con mura sicure, che videro passare le truppe di Annibale, li protessero quando levarono gli scudi contro Roma, si aprirono alle coorti cesariane di Marcantonio. Poi la pax augustea, la nuova lingua, le nuove divinità; la piccola Sulmo si fece città, i luoghi sacri divennero monumenti, i tuguri dimore sontuose. Sulmo mihi patria est, cantò in quel tempo non senza un pizzico di orgoglio il sommo Ovidio, consegnando la sua gente alla storia del primo millennio. Altri dieci secoli, una nuova era che vedeva sgretolarsi il mondo classico e l'affermarsi del Cristianesimo. Sulmona, come ora si chiamava quello che era stato uno dei tre municipia della terra dei Peligni, reggeva in qualche modo all'urto delle invasioni barbariche e, protetta dal guscio delle vecchie mura, varcava la soglia dell'anno Mille conservando almeno in parte l'essenza dell'antica dignità urbana: una fortuna che non era toccata a Corfinio che della decantata metropoli italica aveva perso perfino il nome. E quando le mutate condizioni socio politiche restituirono le aree urbanizzate alla loro piena funzione di poli centrali della vita comunitaria, imponenti flussi migratori muovendo dalla campagna e dai villaggi vicini e lontani rivitalizzarono anche il vetusto abitato sulmonese, tanto che il vescovo valvense prese a soggiornarvi con crescente frequenza, fino ad abbandonare per sempre la turrita residenza corfiniese, bella e carica di storia ma isolata nella sua solitudine, ormai quasi cattedrale nel deserto. Poi la splendida ma troppo breve parentesi sveva: il giustizierato, le fiere annuali, la cattedra di Diritto Canonico concorsero con l'irrobustito potenziale demico allo sviluppo urbanistico della città: gli edifici pubblici e privati accresciuti e rinnovati, l'arrivo dei grandi ordini dei Mendicanti e di quel Pietro Angelerio da Isernia che darà vita e vigore alla montagna sacra dei Peligni, i nuovi borghi, la grande piazza del mercato con le botteghe di Porta Salvatoris a far da volano alla dinamica mercantile, ne faranno in breve la capitale indiscussa della giovane regione sorta ai confini del regno. Monumento emblematico di quel tempo felice, l'acquedotto medievale; Sulmontinorum laus, come con giustificata enfasi si scrisse sulla pietra posta a ricordo del suo completamento in quel lontano 1256: una condotta sopraelevata su ventuno possenti arcate ogivali che si rincorrono per oltre cento metri, impropriamente riferita a re Manfredi, ma che era già compiuta ancor prima che il figlio naturale di Federico salisse al trono. E ora che la critica ha accreditato di maggiore antichità il frammento di affresco del Museo Civico recuperato all'inizio del secolo da un edificio in ristrutturazione - che vorremmo tanto poter identificare con una delle domus curie, que sunt apud Sulmone delle fonti storiche - la città vanta anche un'altra reliquia del tempo degli Svevi, meno appariscente, forse, ma altrettanto suggestiva. Difatti, con un po' di fantasia condita da un pizzico di amore per il campanile, che nella giusta dose non guasta mai, in quell'enigmatico personaggio di nobile lignaggio, per quasi un secolo creduto re Ladislao di Durazzo, potrebbe ravvedersi il grande imperatore o, se volete, quel giovane che "biondo era, e bello e di gentile aspetto" di dantesca memoria che fu Manfredi. Ma venne la triste giornata dei Campi Palentini e - per dirla con l'Aleardi - "come dilegua una ardente stella, mutò zona lo svevo astro e disparve"; con la testa di Corradino mozzata sulla piazza del mercato di Napoli caddero anche le fortune dei Sulmonesi. Lutti, esili e confische colpirono i partigiani - ed erano tantissimi - del giovane rampollo degli Hohenstaufen, mentre l'avversa politica angioina privava la città di molti dei suoi privilegi. Riuscirà, però, a completare in qualche modo il grande progetto di età federiciana e avrà la sua grande piazza del mercato, allargherà la cinta muraria a contenere il complesso cattedrale-episcopio e i nuovi borghi sorti alla periferia del primitivo nucleo, trasformerà in senso monumentale chiese e palazzi. E nel mentre fioriranno botteghe artigiane e attivissimi commerci, che convoglieranno lana, seta e zafferano verso i grandi empori mercantili della Penisola, uomini di cultura di valore assoluto, maestranze indigene e forestiere, magistri esperti nell'arte dell'oro e dell'argento daranno lustro e spessore all'immagine della città.

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