Più
che una attività economica la carbonaia è una risorsa culturale
che appartiene alla gente di Tornimparte
Il
territorio di Tornimparte è situato tra boschi di faggio e
rappresenta
una naturale risorsa per il mestiere del carbonaio. La gente di
questi posti è carbonaio da sempre; del resto questa era, in
passato, l'unica attività che potesse integrare il reddito
familiare derivante dall'allevamento e da una stentata
agricoltura.
Generalmente le zone di bosco destinate a legna per il carbone
erano quelle più impervie e senza strade di accesso; l'unico
mezzo di trasporto era il mulo o il cavallo da soma. I carbonai
partivano nei mesi di settembre e ottobre, con dentro ju saccocciu
(un sacco di iuta) le cose necessarie: maglie e calzettoni di
lana, qualche stila (manico di legno) per l'accetta, ju marracciu
(la ronca), la cote e la lima e quando potevano permetterselo, un
pezzo di lardo o di ventresca per la panonta; integravano in
questo modo il misero pasto di pane raffermo, con patate e polenta
che passava loro il capomacchia insieme alla razione giornaliera
di acqua.
Naturalmente, indispensabile era l'accetta, l'utensile principale,
di acciaio temprato costruita a regola d'arte dai maestri ferrai
del tempo nelle forgie alimentate anch'esse a carbone di legno di
castagno; il carbonaio trattava l'accetta come una creatura,
tenendola al caldo avvolta in un panno di lana per non farla
raffreddare troppo nei mesi invernali; se era troppo fredda poteva
spezzarsi all'inizio dell'attività del taglio creando non pochi
problemi. Non sempre ne avevano una di ricambio: poi essa era un
utensile personalizzato ed adattato alle caratteristiche fisiche
del carbonaio e per abituarsi ad una accetta nuova ci voleva del
tempo.
Il carbonaio Domenico di Prospero, Ju Farmacista, pseudonimo
attribuitogli per l'oculatezza e la perizia che aveva nella
gestione del fuoco, nella guida del processo di carbonizzazione mi
raccontava che, nelle notti molto fredde, era solito tenerla sotto
il corpo tra la paglia e le foglie della rapazzola, il letto di
frasche e di paglia.
I nostri carbonai si univano in gruppi di 7 o 8 persone formando
delle compagnie che unite ad altre e comandate dai capimacchia raggiungevano
località lontane dai centri abitati, nelle montagne del Lazio,
delle Puglie, in tutto l'Appennino Centrale e perfino in Calabria.
Lavoravano in condizioni disagiate, esposti alle intemperie e
riparati la notte in basse capanne di frasche e di terra, avendo
per unica compagnia l'ululato notturno dei lupi e i topi nella
capanna.
Sempre Domenico, personaggio arguto ed ironico, con un fisico
temprato come l'acciaio della sua accetta e stagionato come il
manico di legno della stessa, mi raccontava che i topi arrivavano
prima di loro nel posto dove edificavano le capanne, anche nei
luoghi più sperduti ed isolati: "Si comportavano come se
fossero venuti a conoscenza dei contratti che facevano i
capimacchia e ci seguivano nei boschi, forse per farci compagnia e
per recuperare le poche briciole di pane e di polenta che cadevano
per terra". Oggi fare una carbonaia è più una passione che
una necessità. Dopo un periodo di scarsa attività, nel 1974
abbiamo iniziato a ricostruirla in occasione delle feste patronali
del paese.
L'idea è piaciuta, soprattutto ai ragazzi e così abbiamo
coinvolto le scuole, sperimentando quanto sia importante la
conoscenza del proprio territorio e, soprattutto, quanto sia
efficace impegnare alunni ed insegnanti in una ricerca all'interno
delle proprie famiglie e del proprio paese. La proposta della
carbonaia non rappresenta la rivisitazione di una attività
economica ormai scomparsa e forse non più riproponibile alla
soglia degli anni duemila; si tratta, invece, di una operazione di
grande significato antropologico, perché permette la
sopravvivenza di gesti, abitudini che hanno costituito la nostra
storia.
Protagonisti di una attività economica ormai superata dalle nuove
forme di energia, i nostri carbonai conoscevano i meccanismi
ciclici della riproduzione ambientale, e nel bosco usavano un tipo
di taglio e di atteggiamento che permetteva l'uso e la
riproduzione in una rotazione perpetua di salvaguardia e di
conservazione. Non avevano con il bosco e con l'ambiente un
atteggiamento di rapina, come avviene spesso oggi, che ci si
comporta come se le risorse ambientali fossero illimitate, ma
utilizzavano solamente le risorse necessarie lasciando alla natura
il tempo utile alla rigenerazione; vivevano con essa una specie di
simbiosi; "erano essi stessi elementi e ceppaie del
bosco"; così apparivano specie quando durante la fase di
sfornatura del carbone diventavano neri di fuliggine, fumo e
terra. Tornimparte custodisce gelosamente queste tradizioni e
questa cultura che si fonda sui valori della Natura e del lavoro.
Ora, anche attraverso il coinvolgimento di varie associazioni e
l'entusiasmo dei giovani è diventato un motivo di scansione
stagionale sentire tra le case il profumo acre delle carbonaie in
cottura in occasione della festa e fiera dell'Addolorata, che si
svolge il 15 di ottobre.
In questa occasione si crea un vero accampamento tra le carbonaie
fumanti, dove la polenta cotta al paiolo appeso alla camastra (è
un manufatto di legno) e servita nella tavola comune tra i
racconti dei carbonai, rappresenta un rito consolidato in cui il
paese ritrova le radici comuni della memoria e dell'appartenenza.