D'Abruzzo

Un paese laicamente religioso, dove i segni del Sacro divengono riferimento culturale, identità e orgoglio civili. Mosciano Sant’Angelo, nell’anno del Giubileo, mostra, fuse in un’unica anima laboriosa, le tracce della Fede e della Storia

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Mosciano Sant'Angelo
Testi di Maria Concetta Nicolai   Foto di Luciano D'Angelo

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La strada che conduce, tra il lento digradare delle colline, dal casello della A14 a Mosciano Sant’Angelo è ampia e scorrevole. Al salire, il mare diviene una striscia azzurra, sempre più definita, tra l’orizzonte e la campagna e il paesaggio declina in una apparenza pittoresca.
La sensazione, tuttavia, non è quella di andare a ritroso nel tempo, verso una dimensione trascorsa. Anzi, al contrario, sembra che il passato ci corra incontro e si allarghi nello spazio, compenetrando, con i segni della storia, la scansione presente. Così le torri, che in lontananza sovrastano le case del borgo antico, si confrontano, senza contrasto, con la lunga e attraente esposizione dei mobilifici che costeggiano la strada.
Tutto sta in un sereno equilibrio e rileva l’anima comune di Mosciano Sant’Angelo che, in mille anni, ha cambiato forme e modi di vita, ma non identità. Tanta e, per di più, rara coerenza è un privilegio e una risorsa da spendere in un campo che tende ad espandersi sempre di più: quello del turismo culturale.
Salire su questo paese della collina teramana, affacciata sulla costa e ben servita dalla rete autostradale, infatti, non è solo ritrovare i tratti di un’epoca storica, cristallizzati in un percorso interessante, ma è penetrare entro la trama di un tessuto artistico e sociale che, ieri come oggi, poggia su un’identica base antropologica. Quella dell’uomo faber che gestisce la propria esistenza e la coniuga con il territorio di appartenenza mediante le logiche della industriosità.
Forse proprio per questa sua antica vocazione al fare, Mosciano Sant’Angelo è il paese delle torri. Delle sette (due cilindriche, quattro quadrangolari e una pentagonale) che, nel XIV secolo, vigilavano il Castrum Musiani, oggi restano quella cilindrica su cui poggia il belvedere, quella di casa Marini, quella Cardelli e infine la Torre Acquaviva, senza dubbio, la più imponente di tutte con i suoi 20 e più metri di altezza che la rendevano, un tempo, un’eccellente postazione di avvistamento e difesa e la rendono oggi un simbolo municipale.
Una lapide, murata sulla facciata, ricorda che fu fatta costruire da Matteo di Angelo di Morro, monaco dell’ordine di San Benedetto, nel 1397. Più sotto lo stemma familiare di Andrea Matteo I d’Acquaviva, duca di Atri e conte di San Flaviano, identifica la signoria del tempo, mentre l’Angelo che biancheggia in alto richiama alla mente che essa apparteneva alla “Ecclesie Sancti Angeli in Musiano”.
Oggi, come allora, la torre costituisce il riferimento della spiritualità cittadina. Al suo lato destro si apre la facciata principale della chiesa parrocchiale, da cui si diramano le strade del sentimento religioso dei moscianesi. Infatti, oltre quella dell’Arcangelo, tutti hanno un’altra chiesa nel cuore, non fosse altro per antica appartenenza ad una confraternita. E c’è chi si sente più vicino alla chiesa del Rosario e chi a quella dell’Addolorata, universalmente ritenuta, e a ragione, la più bella di tutte.
In effetti alla sobrietà circolare della prima, questa oppone un interno di policrome eleganze ottocentesche. Stucchi, decorazioni, marmi, affreschi e quadreria di prim’ordine (da sottolineare due belle tele di Gennaro della Monica) fanno della Addolorata uno scrigno che l’aureo organo a canne, posto sulla parete d’ingresso, rende adatto anche a raffinate elevazioni musicali.
Ad appena un passo dal centro le chiese di San Giovanni Battista e Sant’Antonio di Padova sono, rispettivamente, il punto aggregante degli omonimi rioni, il primo a vocazione agricola, il secondo tutto definito dalla presenza dei mobilifici. E se solo qualcuno fa ancora riferimento alle cone, spesso deserte, delle contrade, prima fra tutte l’antichissima San Pietro ad Speltinum, la meta che raduna l’antica anima rurale del territorio è la chiesa conventuale della Madonna degli Angeli o del Casale. Posto su un poggio, il complesso monastico dedicato ai Santi sette Fratelli martiri, figli di Santa Felicita, appare ben in vista, con le sue linee armoniose, a chi percorre dal mare, la strada che conduce in paese. Tra queste antiche mura, la devozione popolare sale volentieri, con sincero e festoso entusiasmo, ad ogni ricorrenza religiosa, ma le date in cui il concorso è veramente unanime sono almeno tre: per Sant’Antonio abate, il 17 gennaio, per la Vergine Madre di Dio, l’ultima settimana di maggio, ma soprattutto il 2 agosto, quando alla festa della Madonna degli Angeli si associa l’indulgenza del Perdono a cui i francescani, che officiano, la chiesa danno grande solennità liturgica.
Gli storici affermano che il primo insediamento benedettino sorgesse sui resti di una costruzione più antica le cui tracce sono ancora visibili all’interno della torre campanaria. Quello che è certo, è che nel 1066, come attesta una lamina delle porte di Montecassino, il monastero dei Santi Sette Fratelli era una importante dipendenza di quell’archicenobio. Nel XVI secolo, decaduta la presenza benedettina, anche nella chiesa dedicata a Sant’Angelo posta nel castello fortificato, per interessamento degli Acquaviva, a cui spettava la giurisdizione civile e religiosa di Mosciano, il monastero passò ai Francescani e assunse insieme alla chiesa annessa, l’aspetto che, nelle linee generali, ancora mantiene. Dell’impianto benedettino restano la torre e l’elegante chiostro monastico. La prima, realizzata ad opus quadratum, misura quasi sei metri per lato e diciotto di altezza; le volte a crociera dell’aula di base datano la costruzione al secolo XII. Al chiostro, secondo l’uso monastico, si accede anche dal nartece. Di fronte all’ingresso è posto un grande dipinto settecentesco, raffigurante San Francesco che riceve le stimmate. La scena è chiusa in una ornata cornice che aggiunge decoro all’insieme. Una legenda invita alla riflessione spirituale con le seguenti parole: “Vidi alterum angelum ascendentem ab hortu solis habentem signum Dei vivi”. L’impianto architettonico del chiostro a due ordini è del XIII secolo. In mezzo sta un’imponente pozzo e nel piano superiore si aprono le ventidue celle dei frati. Tutto intorno corre un porticato composto da venti archi a tutto sesto, sorretti da sedici colonne ottagonali in laterizio. Le pareti sono affrescate con episodi della vita di San Francesco e di altri Santi dell’Ordine. Tra una lunetta e l’altra, l’autore (Don Giulio Di Francesco, insigne studioso della storia religiosa e civile del Teramano ipotizza che possa essere Fra’ Paolo da Notaresco, guardiano, pittore e freschista, come ricorda il Necrologia della Provincia minorita abruzzese alla data del 24 ottobre 1683), spesso ha posto medaglioni e scudi con le insegne araldiche di famiglie nobili e di notabili, forse patrocinatori dell’opera. Le scene sono accompagnate da tredici terzine di dodecasillabi a rima alternata che fungono da didascalia. Una severa compostezza, che induce alla meditazione e al silenzio, pervade gli spazi, a cominciare dall’armonioso e ampio refettorio un tempo anch’esso affrescato, che si estende lungo il lato sinistro dell’edificio, fino agli alloggi dei frati, all’appartamento cardinalizio, voluto dalla famiglia Acquaviva, nelle cui stanze è stato spesso ospite, negli anni scorsi, il cardinale Corrado Ursi.
“La chiesa - scriveva nel Settecento Frate Francesco Bernardino d’Arischia - è capace di numeroso popolo, adorna di sette altari ed abbellita da diverse statue di eccellenti scultori, specialmente con quella di Santa Reparata, commendata da periti nell’arte nonché dal volgo, onde muove a divozione chiunque la mira”. L’aula in effetti, è vasta e solenne, gli altari, compreso quello maggiore, sono tre, a cui si devono aggiungere quattro cappelle, tutte pregevoli per impianto architettonico e decorazione.
Al santuario è legata l’indulgenza plenaria del Perdono di Assisi, celebrato il 2 agosto di ogni anno con grande concorso di popolo. L’altare maggiore, adorno di stucchi e di marmi policromi è sovrastato dalla venerata effige della Madonna degli Angeli o del Casale. Si tratta di una preziosa scultura lignea, di fattura seicentesca, di cui non si conoscono né il fantasioso autore, né il raffinatissimo doratore seicentesco.
Se la “saldezza di impostazione conferisce alla Madonna del Casale una certa monumentalità e la semplice disposizione del panneggio, soprattutto della veste, - scrive Damiano Venanzio Fucinese - ci assicura che l’anonimo scultore non era stato minimamente raggiunto né colpito dai modelli seicenteschi, che pure erano presenti nella regione, per la delicatezza e la qualità delle trame arabesche che rivelano non solo una eccezionale sensibilità decorativa, ma anche una consumata perizia tecnica, essa resta uno degli esempi più significativi della Regione”. Ai lati dell’altare maggiore sono sistemate due preziose tele settecentesche raffiguranti rispettivamente la Natività e i Santi Sette Fratelli. Tra le cappelle e gli altari laterali va ricordato innanzi tutto quello di Sant’Antonio abate, adorno di interessanti pitture votive, che come nota Alessandra Gasparroni che le ha studiate analiticamente, “ispirano curiosità e fascino e rivelano la mano di due autori, ispirati da episodi desunti dalla vita, soprattutto quelli relativi alla vita eremitica nel deserto e le tentazioni”. Nello spazio superiore delle pareti, tra il soffitto e il cornicione, è posta una serie di grandi dipinti a tempera rappresentanti nell’ordine, cominciando da destra, Sant’Alessandro papa e martire compatrono di Mosciano, Filippo Neri, figlio di ser Francesco e Lucrezia da Mosciano e Gaetano da Thienne. A sinistra San Biagio Vescovo e martire, patrono minore di Giulianova, San Gregorio Magno e San Bonaventura da Bagnoregio. Completano il ricco arredo una artistica statua lignea di Santa Reparata, attualmente posta sulla cantoria dell’organo, indorata probabilmente dallo stesso autore che eseguì le vesti della Madonna, e un bel coro ligneo databile al secolo XVI, come del resto tutte le opere della chiesa che “fu ridotta alle forme attuali tra il 1583, quando Ottavio Acquaviva senior l’affidò ai Padri francescani e la fine del 1600, quando furono eseguiti gli ultimi lavori della decorazione”.

 

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